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Ricordi della “Selva da Pende” di Antonia Arnoldus

Ricordi della “Selva da Pende” di Antonia Arnoldus
Febbraio 28
10:14 2011

Arnoldus_1972In occasione di un Congresso a Velletri, ho avuto modo di conoscere una simpatica studiosa olandese che abita ora nel centro storico di Rocca di Papa; abbiamo familiarizzato, e con poche domande e qualche informazione scambiateci via mail, abbiamo scoperto di aver in comune un grande amore per questa nostra bella città. Lei mi ha inviato una memoria scritta anni fa e pubblicata nel 2002, sul Notiziario Le Vigne-Sacramento, quando ancora c’era l’indimenticabile Simonetta Spaccia[1].
Ho letto più volte il brano e osservato le foto che vi sono allegate, indecisa se inviarlo così com’è, o provare a scrivere io stessa quanto ha fatto scaturire in me. Di che cosa si parla in questo articolo? Il titolo originario è Ricordi della selva Da Pende e si riferisce ad un passato neanche troppo remoto, ma che invece sembra ora lontano anni-luce. Siamo nel 1984 quando la famiglia di Antonia, questo il nome della mia amica, si trasferisce a Rocca di Papa da Roma, in una villetta in via Frascati, tra una cappellina e un venditore di vino. «Questo fatto ci ha subito colpito – quali simboli sono in realtà più attinenti ai Castelli Romani che una chiesetta ed il vino? – e ci ha convinti del destino che ci legava a questa casa …». Queste le parole dell’autrice che fino al 1997 ha vissuto in quella villetta con giardino. La zona confinante che seppe veniva chiamata “Da ‘Pende” in realtà prendeva il nome dal Professor Nicola Pende, proprietario originario del terreno, medico e ideologo della campagna razziale nel periodo del fascismo.
Il brano continua descrivendo il luogo dove sorgeva la chiesetta, dedicata a S. Paolo, situata poco distante dall’attuale Piazza Alcide De Gasperi, sotto due pini che ancora sono là; era circondata da una natura incontaminata dove, tra cespugli, piante di ortiche e alberi da frutto crescevano anche rare orchidee selvatiche. Spesso con i figli la mia amica è andata ad esplorare quella zona così misteriosa che sembrava possedere «una strana attrazione magica»; per farlo era sufficiente scavalcare il recinto del loro giardino. «L’area si estendeva fino alla Via di Frascati, dove c’era un cancello d’ingresso arrugginito, all’altezza dell’attuale semaforo. Al suo interno si trovavano alcune case in avanzato stato di abbandono, tale da non pensare nemmeno a passare le porte, aperte o mancanti. C’era anche una struttura riconoscibile come piscina. La sera faceva un gran buio, con solo alcune piccole luci visibili in lontananza, provenienti da una casa confinante».
La cappellina aveva dimensioni ridotte (3x5metri), l’interno era vuoto e vi era solo un piccolo altare di marmo. Sul brano che Antonia mi ha inviato ci sono le foto esterne della sacra struttura: una risale al 1963 ed è stata pubblicata sul libro di Tito Basili Passeggiate sui Colli Albani- Rocca di Papa. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare questa zona in quel periodo, faccio fatica anche a focalizzare com’era prima del boom edilizio degli ultimi venti anni … Certo già solo il nome “Le Vigne” fa lavorare molto la mia fantasia, ma cerco di tenerla buona e vado avanti con il nostro documento…
Continua il brano: «La magia del luogo si è cominciata a rompere all’incirca nel 1989 con l’inizio dei lavori per la costruzione delle “villette”. Trincee, polvere e rumore, ed un aumento della presenza di bisce d’acqua nel giardino, che non ritrovavano più la loro selva – una volta ci ha spaventato addirittura un esemplare dentro la cappella! Ma lasciando in piedi i grandi alberi, tutto sommato questi lavori non disturbavano troppo. Finché non sono cominciate le costruzioni sull’attuale Piazza Alcide De Gasperi. La zona “da Pende” si è trasformata così, nell’arco di pochi anni, da una selva buia, in una zona peri-urbana ben illuminata. E la Via di Frascati, da una strada poca trafficata, in quella che è oggi. Il che, in fondo, è stato uno sviluppo giustificabile». Giustificabile – ammette – se non avessero demolito quella cappellina! E per far posto alle fogne, per giunta!
«Sono andata a guardare il triste mucchio, molto arrabbiata per la perdita di un “mio” simbolo. Indifferenza intorno: “Ma che t’importa? Mica è tuo quel terreno!” Ma non era questo!! Per me l’evento è stato emblematico della distruzione, in nome del progresso, della bellezza dei Castelli». Tra le macerie Antonia salva un frammento del mosaico che abbelliva lo spazio sopra la porta d’ingresso della chiesa e ancora oggi lo conserva nel cortile della sua attuale abitazione nel centro storico di Rocca di Papa.
Piange il cuore a pensare alle ruspe che hanno demolito quella piccola edicola, frantumato ogni pietra e calpestato sotto i cingolati quel simbolo di sacralità costruito poco meno di ottanta anni fa da qualcuno che in quel luogo si raccoglieva per un pensiero al Creatore – Era proprio necessario privare quella zona di un simbolo sacro legato al territorio, pur se non così antico? – si chiede la nostra studiosa. E continua il suo discorso facendo una distinzione tra le diverse mentalità di allora nella nostra zona, dove gli autoctoni accettarono di buon grado, nel nome del progresso, l’urbanizzazione del territorio castellano, a discapito della Natura vista più come ambiente rurale e non comodo come quello cittadino. La mentalità nel tempo è cambiata ancora e chi ha scelto di venire a vivere a Rocca di Papa e ai Castelli Romani, rinunciando alla metropoli romana, lo ha fatto in seguito a una rivalutazione dell’ambiente naturale rispetto a quello antropico, ma qui il cane si è morso la coda, perché quell’ambiente di una volta, gradualmente è scomparso, proprio a causa dell’assalto anagrafico del territorio, in precedenza già urbanizzato in modo consistente anche nella zona dei Campi d’Annibale.
Nella conclusione del brano che ho tra le mani, l’autrice spiega come le incomprensione tra i “rurali” e i “forestieri” siano state riconducibili in massima parte da una diversa concezione, allora, della qualità della vita e restano le sue ultime parole un monito sul quale non si dovrebbe mai smettere di riflettere, ancora oggi: «Non voglio colpevolizzare nessuno, ma soltanto ribadire che, a mio avviso, l’indifferenza al degrado del patrimonio culturale e naturale può essere considerato “reato morale”».
Credo che tutti noi dovremmo meditare su quanto appena letto e chiederci in quale modo si potrà contribuire ad una futura salvaguardia del territorio, per lasciare ai nostri figli e nipoti, almeno una pallida imitazione della bellezza antica di questa zona.
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[1] disponibile in linea all’indirizzo http://www.digiter.it/nostrea/pagine_sciolte/cappella.htm#selva

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