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Velletri dopo le aggressioni dei Saraceni

Febbraio 19
23:00 2015

09-Articolo-Lozzi-Stemma-della-città-di-VelletriUn tempo lontanissimo, il 946 dopo Cristo. In tutta la zona di quello che doveva essere stato lo splendido municipio di Velletri non c’erano più abitanti, non c’erano più animali domestici, non c’erano più alberi da frutto e nemmeno un tentativo di coltivazione. Deserto.
Quello che alcuni storici descrivono come l’ininterrotto, glorioso fluire della città veliterna, viene smentito e quasi fotografato in questa pergamena come il risultato di una lunga e feroce devastazione compiuta persino sulle piante da frutto.

Lunga, spietata occupazione di predoni saraceni che per quasi tutto l’ottavo secolo, fino al 916, invasero gran parte del Lazio e della Campania con una ferocia che, con ogni probabilità, dura ancora con notevole intensità presso molti gruppi di fede islamica. Nel 916, con la battaglia del Garigliano, gli invasori furono sconfitti e scacciati dalla loro fortificazione del ‘traetto’, sulle rive di questo fiume, a opera del papa Giovanni X, che era riuscito a formare una forte coalizione di principi uniti a Berengario, re d’Italia.

La pergamena dell’atto di enfiteusi
La pergamena in questione non parla degli eventi storici, ma descrive indirettamente le condizioni di desolazione lasciate dai Saraceni. Se ne riporta il brano introduttivo, che porge anche la motivazione del fatto che il vescovo di Velletri, con il territorio devastato in modo irreparabile per le sue possibilità, lo cede in enfiteusi a un principe romano. «È piaciuto dunque con l’aiuto di Cristo e si è convenuto fra Leone reverendissimo vescovo velitrense, con il consenso della chiesa in questo e per sé tutta la congregazione dei presbiteri e dei servi di Dio e di fronte Demetrio eminentissimo console e duca figlio del fu Melioso che debba accettare con l’aiuto del Signore, dal sopra citato Leone reverendissimo vescovo (…) un monte intero dove il soprascritto Demetrio a spese sue deve costruire un castello e far crescere e riunire il popolo. E inoltre anche all’esterno dello stesso castello nella terra incolta tutto intorno dove sia possibile le vigne con gli alberi da frutto consolidare i fondi e i casali». Il testo è riportato in tutta la sua rude forma grammaticale, privo quasi di punteggiatura e redatto in un latino infarcito di sostantivi barbarici e dialettali.
Gli obblighi del nobile Demetrio sono sottolineati più volte: «Che se nel predetto monte non sarà fatto il castello e il popolo non abiterà lì, oppure le vigne e gli alberi non saranno piantati e fatti crescere e in tutti i sopradescritti fondi non ci sarà stato restauro, allora la stessa carta che ho fatto a nome tuo rimanendo inutile e priva di ogni valore, tutte le cose sopra descritte come si legge sopra da parte del sopra scritto vescovo ritornino a lui in tutti i modi». Si può pensare che lo stemma di Velletri abbia avuto origine, nella sua forma araldica, proprio da questo avvenimento, evidentemente realizzato dal duca Demetrio. Infatti il posto centrale dello stemma è occupato da un castello che, se fosse derivato dal periodo romano, secondo quanti parlano di evoluzione storica ininterrotta, sarebbe quantomeno anacronistico. Mentre il motto che circonda lo scudo araldico, Est mihi libertas papalis et Imperialis (Ho la libertà papale e imperiale) che significa molto e non significa niente, costituisce tuttora motivo di vanto per i veliterni.
Sempre partendo da questo documento, gli alberi che vi apparivano potrebbero essere stati dei meli, data l’insistenza con la quale se ne parla. Attualmente gli alberi hanno assunto la forma di cipressi.
Diversi testimoni controfirmano il trattato e tutti insistono sulla necessità della ricostruzione. Aluino presbitero si firma e sottolinea «l’accordo riguardo al soprascritto monte per costruirci dalle fondamenta un castello con i suoi fondi e casali». Nello stesso modo si esprimono, mentre si sottoscrivono, Sisto presbitero, Teofilatto presbitero, Leone amato da Dio, secondicerio della Santa Sede Apostolica.
Anche da parte laica i testimoni di Demetrio si esprimono sull’urgenza di «fare dalle fondamenta un castello»: «Sono Pietro, nel nome di Dio console e duca; io sono Romano, verso il console duca Demetrio, chiamato da lui come testimonio».
Personaggi venerabili e potenti, a quel tempo. Di loro rimane soltanto una riga scritta, anch’essa sbiadita. Nessuno ha firmato di proprio pugno, pur essendo chiamati a un evento gravido di conseguenze storiche. Ognuno ha siglato una croce e Stefano, scriniario e notaio della città di Roma, ha segnato i loro nomi dietro la croce. Velletri rinasceva e tutti i testimoni del suo riaffacciarsi alla storia erano analfabeti.

Chi desideri informazioni sulle modificazioni e sull’origine del motto sullo scudo araldico può consultare Est mihi libertas? di Roberto Zaccagnini.

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