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Vendo..la sinistra

Febbraio 03
09:45 2010

Altro giro, altra corsa, si diceva un tempo nelle giostre di paese e la fine dell’ennesimo giro di danze, aperte dai grandi raisonneur della sinistra, è stato sancito dalla vittoria alle primarie pugliesi dal massimo esempio di eterodossia post comunista italiana, Nicki Vendola.

Ancora una volta un “pensiero debole” spacciato per fine teleologia, è stato sconfitto lasciando macerie e detriti in quel Partito democratico che non è riuscito ad essere nè liquido, come auspicava il dettato postmodernista di Veltroni, nè a strutturarsi in una nomenclatura capace di modulare le spinte intrapartitiche per farne una sintesi pragmatica in vista degli appuntamenti elettorali. A questo punto non rimane che attendere la debacle che potrebbe materializzarsi in un risultato negativo alle prossime elezioni regionali e ricominciare il ragionamento su un soggetto incapace di costruire un modello fuori dalla logica del piccolo cabotaggio e in più con il vizio dello strabismo opportunistico che ingloba pensiero neoconfessionale e liberalismo democratico; socialdemocrazia europea ed eretismo comunista emiliano romagnolo in una melassa burocratico verticistica sospinta dalla stanchezza del logos autoreferenziale dei suoi dirigenti, comunque e dovunque incapaci di sprigionare simboli, energie mistiche ed emotive in grado di investire un corpo comunitario che si alimenta di tutto ciò, prova ne è il successo di Vendola, che ha scardinato il processo “infallibile” della ragione di partito per far vibrare quel corpo apparentemente sotto tutela emotiva. Un’invocazione che non so dire se di sinistra ma che ha percosso corde insospettabili, che ognuno di quei credenti democratici ha voluto fossero toccate.
Una lezione? Chissà. Intanto le svendite di fine stagione sono già iniziate, con tutto il loro portato di articoli fuori moda riciclati da vari passaggi di invendibilità e mediati da magliari che si occupano di piazzare gli ultimi stracci per recuperare gli esigui investimenti da cui si era partiti.
Rutelli che il giorno dopo la sconfitta di Franceschini, decide di uscire dal Pd e dare vita ad una nuova formazione, fiancheggiatrice dei sempre ambìti pierferdinandei, è il simbolo di una sostanza che non ha mai fatto sintesi, che è rimbalzata da una partita di Risiko all’altra: dalle sinergie con Di Pietro alle prese di distanza dialettica dallo stesso; linea morbida e linea reticente, sovrapposizioni ambigue e intelligenza con l’avversario Fini, che però fa massa critica, a sinistra? Non si sa. E poi il cerino della Regione Lazio che nessuno ha voluto tenere in mano, perchè o si vince o si brucia, ma nessuno vuol bruciare per la politica: consultazioni infinite; nomi improbabili e poi l’incarico di esperire al Presidente della Provincia che si limita a dire che non vi è nessuno disponibile e che la Bonino va bene per tutti e anche per Totti, ma se sarà lei a vincere saremo tutti vincitori, nel bene o nel male, tranne la temibile teodem Binetti, simbolo evidente del melting pop più deteriore di un’aggregazione senza identità, capace di fagocitare tutto e il contrario di tutto per superare il senso di morte che l’attraversa, in una battaglia per la sopravvivenza, che ricorre all’improvvisazione sistematica, quando sconfessa se stessa alla ricerca di un candidato “sostenibile”, un corpo estraneo per giustificare l’inadeguatezza dell’apparato.
Nessuno però è così fesso da farsi strumento di chissà cosa, né Roberto Saviano, né tantomeno il portavoce della comunità di Sant’Egidio Mario Marazziti, né tanti altri illustri outsider.
E allora niente primarie, quando sono tutti d’accordo sul governatore da confermare, metodo statutario delle primarie quando di mezzo c’è un rompiscatole come il governatore pugliese che vorrebbe rinnovare il mandato e che sempre ragionando a sinistra potrebbe assumere il ruolo di deus ex machina, capace di stoppare il moto perpetuo della scissione, insita nell’ipercriticismo dei crociati ex comunisti, sempre in cerca di alterità anche rispetto a se stessi.
Anche in questo caso tutto potrebbe finire miseramente dopo l’esito delle elezioni regionali e le varie sinistre spappolarsi in un’anomia senza ritorno. Probabilmente il sistema decisionale verticistico è davvero un modello obsoleto, non più corrispondente ad una società i cui riferimenti sono ossimori infiniti, che nessun partito può rappresentare se non destituendo di valore le pratiche fin qui esercitate e scomporre il proprio arroccamento in circuiti autonomi e reticolari che determinino le politiche territoriali per informare quelle nazionali, senza alcuna soluzione di continuità.

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