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Il Rossetto, artigiano del mosaico e della musica

Aprile 01
02:00 2007

Presentato a Roma dall’autore, nel quadro delle rassegna Tre note a margine (promossa dall’Istituto d’Istruzione Secondaria Via delle Sette Chiese col patrocinio dell’XI Municipio), l’agile volumetto del M° Franco Fois (docente di chitarra e liuto a Cagliari, concertista nonché promotore di spettacoli di musica e danza rinascimentale) ci introduce con perizia nella vita artistica e musicale della Venezia del ‘500, dandocene un vivace spaccato con l’esplorare la vicenda umana e artistica di Domenico Bianchini, detto il Rossetto per la chioma fulva. In questo secolo Venezia, crogiolo di attività economiche e culturali, punto di intersezione sulle direttrici commerciali che collegano l’Oriente al Nordeuropa, fucina di grandi e piccoli ingegni, accoglie una variegata umanità, senza però mai diminuire nei confronti di questa il ruolo privilegiato dei suoi figli: “tutti son forestieri in Venezia che veneziani non siano; et quivi…il forestiero di nulla è fatto partecipe”, come afferma un nobile dell’epoca. Questo sentimento di orgogliosa autonomia non è peraltro limitato alla coscienza civica o alla sfera politica, ma impronta di sé tutte le scelte culturali che qui si operano, e garantisce una certa indipendenza intellettuale anche alla stampa, soffocata invece progressivamente nel resto d’Italia dalla temperie controriformista e dall’azione della Compagnia di Gesù .La distanza geografica e politica dal papato legittima qui perfino scelte liturgiche diverse e concede un autonomo prestigio e autorevolezza alle gerarchie ecclesiastiche rispetto alla Curia (e si pensi al ruolo che ancora oggi si riconosce al Patriarca di Venezia).
In campo musicale ciò rappresenta la premessa allo sviluppo di una scuola di altissimo livello, attenta a coltivare elementi locali (nonché generi profani) nonostante l’indubbia influenza di Villaert , e la moda che nel resto d’Italia promuoveva soprattutto strumentisti e maestri di cappella tedeschi e fiamminghi. Non a caso, successore del Villaert come maestro di cappella in S. Marco sarà Gioseffo Zarlino, musicista e teorico in polemica con Vincenzo Galilei (padre di Galileo) sulla mescolanza dei generi. La musica, però, non è soltanto quella paludata delle cappelle e delle cerimonie ufficiali. A Venezia, anima anche i momenti ‘profani’ della vita sociale ed è parte integrante della vita collettiva in feste, serenate, banchetti. Per queste occasioni, come del resto anche in ambito religioso, lo strumento più utilizzato nell’Europa del XVI e XVII secolo è il liuto, non solo per la sua maneggevolezza, ma anche per il perfetto amalgama che crea con la voce. E l’iconografia dell’epoca ce ne dà ampia conferma. Presente in tutte le corti rinascimentali, l’abilità nel suonarlo rientra tra le virtù del perfetto cortigiano, come ci testimonia il Castiglione nel Cortegiano. E’ presente altresì quasi in ogni casa, come ci suggeriscono inventari e testamenti dell’epoca. La sua fortuna, del resto, si deve anche all’invenzione dell’intavolatura, un sistema di notazione basato non sulla relazione di altezza fra le note (come sul pentagramma), bensì sulla posizione che ogni nota occupa sul singolo ordine di corde (dunque su di un esagramma poiché gli ordini sono sei). Questo consentiva una lettura semplice anche a chi non possedesse competenze musicali specifiche.
È in questo contesto che si inserisce l’opera del Bianchini, onesto artigiano sia nella fabbrica musiva marciana che nella musica. Nell’una come nell’altra attività non pretende di assumere un ruolo creativo, ma forse sperò in qualche momento di potersi riscattare dal duro lavoro di mosaicista entrando a far parte, in qualità di ‘musico pratico’, di quel gruppo di intrattenitori che animavano le serate musicali e la vita sociale della città. Con questa speranza dà alle stampe per la prima volta nel 1546 la sua Intabolatura de lauto di Dominico Bianchini presso lo stampatore Gardane, dedicandola a “li signori marcadanti di Fontego Allemani” (cioè ai mercanti del Fondaco dei Tedeschi) nella speranza che questi potessero aprirgli il mercato d’oltralpe. La sua Intabolatura infatti sembra pensata come opera di intrattenimento, essendo una sorta di antologia di base comprendente brani vocali e ricercari, unitamente a temi destinati alla danza. La sua abilità di liutista del resto ci viene testimoniata da diverse fonti, compreso quel Girolamo Parabosco che animava le serate di compagnie malfamate, e perfino da Anton Francesco Doni nel Dialogo sulla musica. E le diverse ristampe della sua opera ne testimoniano il successo. Ma ben presto il Bianchini, non essendo riuscito forse a conquistarsi il favore di alcun signore veneziano o tedesco, abbandonò le ambizioni musicali tornando a dedicarsi all’attività di mosaicista in S. Marco, che aveva intrapreso al seguito del fratello Vincenzo e che doveva garantirgli almeno una diversa soddisfazione economica. Ma anche qui il suo talento non supera i confini di una perizia artigiana, destinata a riprodurre, con le tessere provenienti dalle fornaci di Murano, i cartoni di artisti celebri e in particolare del Tintoretto sul cui cartone ha realizzato tra l’altro l’Ultima cena del 1571.
Pur nella modestia della traccia che il Bianchini ci ha lasciato, ci piace comunque, immaginandolo intento al suo lavoro fatto di manualità e di fatica e tuttavia assorto nell’ascolto della musica (che all’interno della basilica doveva essere esercizio quotidiano), intravedere ancora una volta quell’unità di agire e sentire dell’homo faber, intento a scomporre e ricostituire la realtà multiforme, che è la cifra più autentica e innovativa del Rinascimento.

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